di ANGELICA STEFANONI – Dante Alighieri e la sua Commedia suscitano da sempre un interesse che non tramonta mai, ma forse il Sommo Poeta l’aveva già immaginato all’epoca. Nell’introduzione al celebre poema scrisse, infatti, Nel mezzo del cammin di nostra vita a indicare, con quel pronome plurale, di aver condotto il suo viaggio immaginario nei tre regni non solo per sé stesso, ma per gli uomini di tutti i tempi che avrebbero letto e studiato la sua opera.

In occasione dell’anniversario dei 700 anni dalla morte di Dante, avvenuta tra il 13 e il 14 settembre del 1321, il Gruppo Culturale “San Siro” di Soresina, la Biblioteca Comunale di Soresina e il “DAV” (Dipartimento Arti Visive) hanno organizzato un ciclo di quattro incontri serali dedicati all’’eterna figura del Poeta. Il primo appuntamento, svoltosi lo scorso 21 giugno, ha vantato la presenza del dottor Gianpiero Goffi, che si è soffermato con precisione e passione sul contesto storico-politico in cui Dante ha dovuto misurarsi; a cura del professor Claudio Vela, invece, l’incontro del 28 giugno, incentrato sull’analisi metrica, linguistica e stilistica della Commedia.
A don Marco d’Agostino, professore di lettere classiche, rettore del Liceo Vida e del Seminario Vescovile di Cremona, l’arduo compito di trattare il rapporto del Poeta con la Chiesa del suo tempo, argomento della serata di lunedì 5 luglio. La Commedia, definita “divina” da Boccaccio, restituisce un’immagine alquanto fedele delle gerarchie ecclesiastiche del XIV secolo, sempre più interessate ad assumere anche il potere temporale, ma non mancano di certo le sottolineature nelle quali Dante apre il suo cuore di credente. “Durante il suo cammino, il Poeta riconosce sempre meno i personaggi che incontra, di conseguenza ha bisogno di un aiuto che si concretizza nelle figure di Virgilio e Beatrice -ha spiegato D’Agostino- “Non solo per Dante, ma anche per noi una mediazione è necessaria in quanto non ci si salva da soli. Abbiamo tutti un grande bisogno di Dio che si medi a noi tramite la Chiesa, fidata compagna dal fonte battesimale fino all’incontro con il Signore”. La nostra vita è, infatti, un lungo viaggio e noi “siamo esuli alla ricerca di una patria che non si trova sulla Terra, ma nel cuore e negli occhi di Dio”, così come il poeta fiorentino era stato cacciato dalla tanto amata e odiata città natale definendosi exul immeritus.
Comprendiamo, quindi, come l’apparato religioso, oltre alla politica, abbia contribuito a determinare la figura di Dante, di un uomo che crede in una Chiesa ordinata, misericordiosa e santa, nutrita dalla parola di Dio e dalla dottrina e sempre in cammino di conversione. Al tempo stesso, ha spiegato D’Agostino, “è innamorato sofferente della Chiesa: Dante soffre nel vedere una Chiesa che fa altro rispetto al volere di Dio, è ferito nel modo storico di comportarsi dei pastori, in particolare di papa Bonifacio VIII”. Tuttavia Dante non si presenta come un “censore dei costumi: è stato lui il primo a smarrirsi in una “selva oscura” priva della luce di Cristo e a riconoscere che una grazia dall’alto l’ha salvato. Così si fa testimone dei sentimenti evangelici, sapendo che il cammino è faticoso, ma proprio da questa sofferenza che ha patito nascono le tre cantiche che conosciamo, che studiamo e che ancora oggi possiamo leggere”. Emblematiche le dure parole che Dante fa pronunciare a San Pietro nel canto ventisettesimo del Paradiso, alle quali d’Agostino ha affidato la chiusura della terza serata del ciclo di incontri che si concluderà lunedì 12 luglio con un appuntamento di carattere artistico tenuto dal dottor Francesco Raffaele Mutti.
La provedenza, che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
silenzio posto avea da ogne parte, quand’io udi’: «Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend’io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio
fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».
(…)
«Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;
ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pio e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.
Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;
né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’io sovente arrosso e disfavillo.
In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?
Divina Commedia, Paradiso XVII, versi 16-27, 40-57, Dante Alighieri